L’oro di Napoli

Roberto Beccantini13 giugno 2020

E’ stata più divertente e più mossa, Inter-Napoli. In finale vanno, così, Gattuso e il suo calcio operaio, italianista, tutto cuore. L’Inter di Conte ha fatto la partita, come all’andata. Molto ha sprecato e molto ha peccato.

Non le sono bastate una frittatona di Ospina, già al 2’, sul corner di Eriksen, e neppure lo sconto di un giallo a Young poco dopo la mezz’ora: sarebbe stato il secondo. Il portiere e il catenaccio: ecco l’oro di Napoli. Non c’è stato tempo di difendere l’1-0 di San Siro. Ce n’era sin troppo, viceversa, per patire gli effetti dello scacco improvviso. Maksimovic e Koulibaly hanno riorganizzato la difesa. Ospina si è ripreso, alla grande: provvidenziale su Lukaku e Candreva all’inizio, due volte su Eriksen alla distanza.

E, soprattutto, cruciale nella dinamica del pareggio. Azione che più verticale non si può. Rinvio lungo verso Insigne, controllo e assist per Mertens, piatto destro e 122° gol, le statistiche del Napoli hanno un nuovo re. Stava dominando, l’Inter. Chi governa, e per giunta è in vantaggio, non può farsi buggerare in quel modo.

A livello individuale, meglio i bassotti Insigne-Mertens dei tori Lukaku-Lautaro (di quest’ultimo, specialmente). Notevole l’impatto di Candreva, poi sfiorito. Brozovic e Zielinski non hanno domato la trama. Eriksen, lui, l’ho visto più a suo agio nel tiro che non in fase di rifinitura. Crescerà. Il solito Napoli, che ha imparato a gestire risorse e limiti. La solita Inter, che nei momenti-chiave, per un motivo o per l’altro, sciupa e si perde.

I cambi non hanno alterato l’intreccio. Se mai, rispetto allo Stadium, ho notato più ritmo. Juventus-Napoli è già stata la finale del 2012. Mazzarri incartò Conte. Sarri ritrova la «piazza» dalla quale lanciò il messaggio alla nazione. In campionato, al San Paolo, vinse Gattuso: 2-1. Ringhio sa di essere più debole: ma sa anche come simularlo.

Indizi, null’altro

Roberto Beccantini12 giugno 2020

Era la prima volta dopo tre mesi di «guerra». Per lo sport, e non solo, un battesimo. Juventus-Milan 0-0, Juventus in finale di Coppa Italia. Una «prigione» così lunga e uno Stadium così vuoto non potevano non influire (se non, addirittura, infierire). Ma anche il rigore di Cristiano e il rosso a Rebic, già al 16’, avrebbero potuto, avrebbero dovuto. Il palo di Cierre e la superiorità numerica hanno consegnato la partita a Madama il cui governo è stato molto «democristiano», molto concertato, senza occasioni da far saltare sulla sedia.

A Pioli mancavano, per squalifica, Ibra, Hernandez e Castillejo. La scarpata del serbo l’ha costretto a inventarsi un’attesa ancor più sofisticata attorno a Romagnoli e Kjaer, i migliori. La carta Leao andava giocata (anche prima), ma non ha prodotto che bollicine. Solo, non avrei tolto Bonaventura. Non mi è dispiaciuto il primo tempo di Paquetà, mentre da Cahlanoglu mi sarei aspettato più cattiveria sotto porta. Il Diavolo esce dopo due pareggi, due espulsi, due rigori: esce, soprattutto, a schiena dritta.

Celebrata la scomparsa del dribbling, per quanto non fosse questa la serata ideale per rimarcarne la nostalgia, la Juventus aveva cominciato bene, a tutto pressing. Il vantaggio numerico l’ha come saziata. Se ha corso pericoli molto relativi, le palle-gol create non sono state l’artiglieria che, immagino, le statistiche millanteranno. Centravanti a furor di tridente, Cristiano è finito sul penalty. Dybala ha cercato di trovare l’interruttore: se penso ai 46 giorni di quarantena, qua la mano. Bentancur (meglio da mezzala), De Ligt e Alex Sandro i più reattivi; Pjanic, il solito «postino» che suona ma non squilla.

I cambi a blocchi non hanno né imbolsito né agitato la trama (ah, Bernardeschi). Naturalmente, ogni giudizio va sospeso per manifesta cesura. Restano gli indizi: liberissimi di frustarli come vi pare.

Gigi, il valore della bottega

Roberto Beccantini22 maggio 2020

Gigi Simoni se n’è andato proprio il giorno in cui la «sua» Inter celebra il decennale del Triplete. Aveva 81 anni, combatteva dal giugno scorso contro un ictus. Era bolognese di Crevalcore, era stato, in carriera, un’ala duttile, più di raccordo che di rifinitura (62 gol, comunque). Vestì le maglie di Mantova, Napoli, Toro, Juventus (una stagione sola, 1967-’68: doveva arrivare Gigi Meroni e invece, per evitare moti di piazza, arrivò lui), Brescia e Genoa. Vinse una Coppa Italia con il Napoli. Da allenatore, girò mezza Italia, ottenne sette promozioni dalla B alla A, forgiò il miracolo della Cremonese, fu il primo tecnico di Ronaldo in Italia, all’Inter, con la quale si aggiudicò una Coppa Uefa e perse uno scudetto che sanguina ancora.

Per me era rigore, il contatto tra Iuliano e il Fenomeno, per Ceccarini no. Domenica 26 aprile 1998: Gigi sbroccò, invase il campo, fu squalificato. Finì 1-0, gol di Del Piero. E da quel pomeriggio, apriti Triade.

Non appartiene alla casta degli scienziati. E’ stato un artigiano che praticava un calcio senza fiocchi fusignanisti ma anche senza forzature retro. La quiete ben oltre la tempesta: «quella». Sapeva destreggiarsi fra i campioni e i gregari, lui che aveva vissuto il calcio con la semplicità dei «normal-one» che vedono nella bottega un valore e non sempre, ed esclusivamente, un prezzo o un limite. Moratti, in versione ultrà, lo bocciò in estetica dopo due vittorie, la prima addirittura contro il Real in Champions, 3-1 (e la seconda, con la Salernitana in campionato, 2-1). Glielo comunicò Mazzola: Gigi era a Coverciano, gli avevano appena consegnato la panchina d’oro.

Soffrì la tragedia immane della perdita di un figlio giovane. Ebbe meno di quanto avrebbe meritato. Era un uomo che ha cercato sempre di essere sé stesso. In Italia, un’impresa.